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417_Giuseppe Dossetti e la fine della cristianità (27.01.2013)

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Il pensiero della settimana, n. 417 

 

Il centenario della nascita di Giuseppe Dossetti (13 febbraio 1913 – 15 dicembre 1996) è ormai alle porte. Parlando in generale, trovare formule per etichettare un pensiero, a un tempo complesso e unitario, è operazione sempre rischiosa e non di rado arbitraria. A volte però è quasi inevitabile cedere a questa tentazione. Parlare a proposito di Dossetti di «radicalismo cristiano» è, per esempio, formulazione per alcuni versi banale, ma per altri sicuramente calzante. L’istanza di giungere a un nucleo profondo sottratto a mediazioni e compromessi appare, infatti, una cifra ricorrente da applicarsi sia al costituente,[1] sia al politico, sia al perito conciliare, sia al monaco, sia al meditatore dell’intera Scrittura. Tutto ciò trova il proprio baricentro all’interno della precoce e costante intuizione di Dossetti di vivere in un’epoca contrassegnata dalla fine della cristianità. 

Elman Salmann – in modo del tutto autonomo dalla riflessione dossettiana –  ha avanzato l’idea stando alla quale il movimento giansenista ha rappresentato la prima grande esperienza volta a formare un cattolicesimo colto, capace di presentarsi come una minoranza non settaria in grado di confrontarsi con la cultura moderna. In riferimento alle ripetute accuse di semipelagianesimo mosse da Dossetti a molti atteggiamenti assunti dai cristiani che operano nel mondo contemporaneo, risulta quasi inevitabile avanzare un’analogia. In effetti, occorre riflettere se l’appello al ruolo della «grazia» – verità teologica, ma, di riflesso, anche antropologica – non sia una condicio sine qua non per collocare nel mondo attuale la testimonianza evangelica nell’ambito che le è oggi peculiare. La sfida sta nell’individuare proprio nel richiamo alla grazia la possibilità di emanciparsi da ogni atteggiamento settario.

Nel 1994, nel corso di un’omelia pronunciata per la professione di un fratello che entrava nella Piccola Famiglia dell’Annunziata, don Giuseppe affermò: «Ogni tentativo di ricostruire o di “dare da bere” che si può ricostruire una sintesi culturale o una organicità sociale che presidi e che difenda la fede sarà sempre più un tentativo illusorio. E io prego perché noi sacerdoti e noi pastori della Chiesa non diamo a nessuno questa illusione, anche se una certa tentazione è sempre rinascente (…) Ma i cristiani si ricompattano solo sulla parola di Dio e sull’evangelo! E sempre più dovremo, in questa nuova stagione che si apre per il nuovo nel nostro Paese, contare esclusivamente sulla parola del Signore, sull’evangelo riflettuto, meditato, assimilato».[2]

Se l’attenzione si focalizzasse solo sull’ultima riga, forte sarebbe l’impressione, avuta da molti, di trovarsi di fronte a una specie di «integrismo mite» che impone al credente di adottare il vangelo anche come guida totale pure per il proprio impegno nella civitas. Si tratta di un’interpretazione sbagliata, ma per comprendere perché lo sia occorre uscire dagli schemi interpretativi correnti. Una prima precisazione fondamentale da avanzare è che, rispetto all’azione dei credenti nella società, l’evangelo si presenta comunque come una guida indiretta: «Un fatto veramente nuovo ed emergente -  e perciò influente sulla storia che si sta svolgendo – sarebbe invece se da molti, anche non moltissimi cristiani di oggi e del prossimo domani, si riscoprisse e si attuasse nella propria vita l’autentico nucleo esplosivo dell’essere discepoli di Cristo».[3] Al riguardo Fabrizio Mandreoli, in un suo efficace libro di sintesi dedicato a Dossetti (vedi nota 2), opportunamente annota che l’efficacia storica del cristianesimo appare qui come un effetto indiretto, quasi non voluto in quanto «per don Giuseppe non si possono mai invertire i termini, cioè prima l’efficacia nella storia e poi il discepolato, prima la presenza pubblica ecclesiale e solo dopo le virtù battesimali ed evangeliche».[4] In un testo pubblicato nel 1967 sulla rivista diocesana bolognese «Chiesa e quartiere», Dossetti affermava con assoluta chiarezza l’impossibilità di derivare dalla Scrittura temi e problemi oggi di spettanza del sociologo o del pianificatore. La Bibbia non è un trattato di sociologia o di estetica; essa «non contiene neppure il germe di una soluzione concreta per nessuno dei problemi della nostra società». Questo compito non spetta alla Bibbia e neppure al suo interprete, ma alle persone impegnate nella ricerca e nello sforzo creatore delle specifiche discipline.[5]

La griglia interpretativa vale anche per l’impegno politico personale dello stesso Dossetti. Al riguardo ci si può riferire a un passo di Guido Formigoni in cui si ribadisce la radicale estraneità del «Dossetti politico» da ogni concezione del cristianesimo di tipo «costantiniano». La politica perciò fu da lui intesa non come una forma di «cristianizzazione» della società, ma «come estrinsecazione di un appello a cogliere tutte le conseguenze comunitarie, sociali, civili, dell’azione di Dio nella storia, nella logica di una “volontà di perfezione” spiritualmente orientata, al servizio del bene comune della persona umana inteso in senso completo, ma non era affatto concepita secondo categorie di un cristianesimo ideologico».[6]

   Si parla in nome del vangelo non solo senza alcun automatismo applicativo, ma anche senza alcun appello a una diretta vocazione profetica da parte di Dio. Dossetti avvertì in modo sempre molto acuto l’idea dell’«ora». Vi sono momenti in cui la discesa in campo non è dilazionabile. L’impegnarsi attivamente nella Resistenza fu la prima, drammatica applicazione di un simile discernimento. La scelta non scaturisce però da alcuna chiamata specifica. Alle sue spalle vi è soltanto una  valutazione sorta in virtù del proprio pensiero e della propria coscienza. Come nel caso del «sapiente», non vi è alcuna immediata percezione di una voce che viene da Dio. In questo senso in don Giuseppe non vi è nulla di carismatico. Anche quando, nella parte finale della sua vita, decise di ritornare sul proscenio pubblico per favorire una mobilitazione in difesa della Costituzione, lo fece in nome di un’«ora» autonomamente colta attraverso un discernimento personale. La vicenda ebbe un’eco assai vasta e fu da molti ritenuta di portata epocale, giudizio che, a distanza di tempo, appare in qualche modo frutto di sopravvalutazione. Tuttavia non vi è dubbio che anche in quella occasione Dossetti parlò in maniera indiretta, esito «involontario» di un indiscusso primato attribuito al vangelo e all’eucaristia.

Piero Stefani




[1] Il 21 novembre del 1946 Dossetti propose di introdurre nella Costituzione il seguente articolo: «La resistenza individuale e collettiva agli atti dei pubblici poteri che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente Costituzione, è diritto e dovere di ogni cittadino». G. Dossetti, La ricerca costituente 1945-1952, a cura di A. Melloni, il Mulino, Bologna 1994,  209.

[2] Cit, in.F. Mandreoli, Giuseppe Dossetti,  Il Margine, Trento 2012, pp. 137-138.

[3] G. Dossetti, La parola e il silenzio. Discorsi e scritti 1986-1995, il Mulino 1997, p. 252 (altra edizione Paoline, Milano 2005).

[4]  Mandreoli, cit., p. 124.

[5] Cit, in Ibidem.,  p. 67

[6] Cit. in G. Zampieri, Giuseppe Dossetti. La Storia, la Croce e la Shoah. Prefazione di don Athos Righi,  Aliberti, Roma 2012, cit., p. 291

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